Anni addietro conobbi un brillante liceale che, dopo aver conseguito con il massimo dei voti il diploma, decise di iscriversi a Giurisprudenza. Superati con la lode i primi due esami del curriculum, lo studente decise, tra lo sconcerto di familari, amici e docenti universitari, di interrompere gli studi. La sua fu una sorta di chiaroveggenza: aveva compreso, con un misto di orrore e vertigine, la vera natura di un abominevole realtà, avendone solo osservato una sfaccettatura con una potentissima lente d’ingrandimento.
Nella fattispecie, il giovane fu folgorato dalla consapevolezza che un abisso spaventoso separa la giustizia vera da quell’accozzaglia di gride che è il corso di laurea in Giurisprudenza. Se si esclude, infatti, la Storia del diritto romano, corso in cui, pur a fatica, ancora sopravvive qualche principio dei prischi padri, tutti gli altri insegnamenti sono un ginepraio di norme, codicilli, articoli, commi… In re publica corruptissima, plurimae leges, scrive Tacito, ossia “in uno stato assai corrotto, le leggi pullulano”. Mai massima fu più vera ed aderente allo sfacelo della giurisprudenza italiana (e non solo) attuale (e non solo). Il binomio stato-giustizia poi è il trionfo dell’aberrazione. Esistono lodevoli eccezioni (si pensi al giudice Paolo Ferraro), ma il quadro generale è avvilente. E’ palese che il “tribunale umano” è distante anni-luce dall’equità: se non è il tempio diroccato di un potere polveroso, è il tetro vestibolo di una camera di tortura. Non si afferma nulla di nuovo: già Manzoni aveva censurato i giudici terreni, le loro collusioni con la classe dirigente, l’ampolloso formalismo legalitario, l’iniquità di una legge debole con i forti ed implacabile con gli umili. Né l’autore dei “Promessi sposi” si riferiva solo alla giustizia secentesca che anzi reputava esemplare di una condizione inveterata e radicata nelle diseguaglianze e nelle sopraffazioni di cui si nutre un potere perverso sino al midollo. Pure Kafka fotografò la stritolante macchina della giustizia, benché egli avesse evocato per lo più, con la sua prosa grigia e disadorna, un male metafisico.
Non stupiamoci quindi, se anche oggi la giustizia non è quasi mai ispirata ad ideali alti: essa è un paradosso, una parodia di sé stessa. Non stupiamoci dunque, se, in un mondo al contrario, criminali incalliti possono accusare innocenti ed ottenerne persino la condanna, intraprendendo le loro iniziative “legali”: è sufficiente sapersi muovere negli oscuri meandri di un labirinto in cui brulicano e si affannano cancellieri, assistenti, legulei, pubblici ministeri, magistrati… la giustizia come verminaio. Tutto è stravolto, nulla è certo: le interpretazioni più balorde schiacciano regole auree. Calunniatori e sicofanti traggono immensi benefici dal loro modus operandi, mentre reati gravissimi restano impuniti, con fascicoli archiviati, procedimenti che si estinguono misteriosamente, norme procedurali violate ad ogni piè sospinto… E’ una giustizia super-mercato in cui chi è più danaroso acquista sentenze a lui favorevoli.
Si stigmatizza - ed a ragione spesso - la casta dei “politici”, ma si trascura di deplorare la popolazione dei palazzi di giustizia dove talora gli avvocati formano la corte di certi influenti personaggi o di taluni giudici, verso i quali provano la soggezione che si palesa all’interno di una struttura gerarchica, feudale.
Si accennava all’orrore: si inorridisce, quando ci si avverte che esistono due dimensioni parallele e tangenti che, però, sono divise da una barriera invalicabile. Con raccapriccio si constata che la gente comune “vive” in una sfera fittizia, irreale, costruita su solide illusioni, su un’aberrante regolarità, tra casa, posto di lavoro, luoghi di divertimento… La gente ordinaria non si avvede che il sistema avvelena in modo deliberato l’intero pianeta, demolisce gli ultimi baluardi di civiltà, sbrana l’identità. Anche in quei rari casi in cui l’uomo della strada si accorge delle innumeri storture, accetta ogni feroce spoliazione, come fosse la cosa più normale.
In alcuni lustri abbiamo visto il cielo subire un’oscena metamorfosi: da magnifico scenario di fenomeni naturali, da suggestiva cornice di paesaggi, emozioni, significati, a teatro di devastanti attività militari. Lo splendore della luce solare si è offuscato: la nostra stella è stata soffocata da una plumbea coltre che lascia appena trasparire un barlume spettrale. Tutto, però, è accolto con noncuranza, con cieca consapevolezza che nulla è cambiato, anzi con il convincimento che il progresso avanza glorioso e fulgido.
Come si può continuare a vivere normalmente, quando si è gettata un’occhiata nell’abisso? Ormai si è sicuri non che il sistema è corrotto, ma che la corruzione più immedicabile è eretta a sistema. Non paiono aprirsi vie d’uscita nell’intricato dedalo, brecce nella poderosa muraglia. Della tanto sospirata crescita di coscienza non pare intravedersi neppure una labile ombra.
Fino a quando, però, resterà anche una sola testimonianza di verità, si saranno perse molte battaglie, ma non l’ultima, quella decisiva.
Nella fattispecie, il giovane fu folgorato dalla consapevolezza che un abisso spaventoso separa la giustizia vera da quell’accozzaglia di gride che è il corso di laurea in Giurisprudenza. Se si esclude, infatti, la Storia del diritto romano, corso in cui, pur a fatica, ancora sopravvive qualche principio dei prischi padri, tutti gli altri insegnamenti sono un ginepraio di norme, codicilli, articoli, commi… In re publica corruptissima, plurimae leges, scrive Tacito, ossia “in uno stato assai corrotto, le leggi pullulano”. Mai massima fu più vera ed aderente allo sfacelo della giurisprudenza italiana (e non solo) attuale (e non solo). Il binomio stato-giustizia poi è il trionfo dell’aberrazione. Esistono lodevoli eccezioni (si pensi al giudice Paolo Ferraro), ma il quadro generale è avvilente. E’ palese che il “tribunale umano” è distante anni-luce dall’equità: se non è il tempio diroccato di un potere polveroso, è il tetro vestibolo di una camera di tortura. Non si afferma nulla di nuovo: già Manzoni aveva censurato i giudici terreni, le loro collusioni con la classe dirigente, l’ampolloso formalismo legalitario, l’iniquità di una legge debole con i forti ed implacabile con gli umili. Né l’autore dei “Promessi sposi” si riferiva solo alla giustizia secentesca che anzi reputava esemplare di una condizione inveterata e radicata nelle diseguaglianze e nelle sopraffazioni di cui si nutre un potere perverso sino al midollo. Pure Kafka fotografò la stritolante macchina della giustizia, benché egli avesse evocato per lo più, con la sua prosa grigia e disadorna, un male metafisico.
Non stupiamoci quindi, se anche oggi la giustizia non è quasi mai ispirata ad ideali alti: essa è un paradosso, una parodia di sé stessa. Non stupiamoci dunque, se, in un mondo al contrario, criminali incalliti possono accusare innocenti ed ottenerne persino la condanna, intraprendendo le loro iniziative “legali”: è sufficiente sapersi muovere negli oscuri meandri di un labirinto in cui brulicano e si affannano cancellieri, assistenti, legulei, pubblici ministeri, magistrati… la giustizia come verminaio. Tutto è stravolto, nulla è certo: le interpretazioni più balorde schiacciano regole auree. Calunniatori e sicofanti traggono immensi benefici dal loro modus operandi, mentre reati gravissimi restano impuniti, con fascicoli archiviati, procedimenti che si estinguono misteriosamente, norme procedurali violate ad ogni piè sospinto… E’ una giustizia super-mercato in cui chi è più danaroso acquista sentenze a lui favorevoli.
Si stigmatizza - ed a ragione spesso - la casta dei “politici”, ma si trascura di deplorare la popolazione dei palazzi di giustizia dove talora gli avvocati formano la corte di certi influenti personaggi o di taluni giudici, verso i quali provano la soggezione che si palesa all’interno di una struttura gerarchica, feudale.
Si accennava all’orrore: si inorridisce, quando ci si avverte che esistono due dimensioni parallele e tangenti che, però, sono divise da una barriera invalicabile. Con raccapriccio si constata che la gente comune “vive” in una sfera fittizia, irreale, costruita su solide illusioni, su un’aberrante regolarità, tra casa, posto di lavoro, luoghi di divertimento… La gente ordinaria non si avvede che il sistema avvelena in modo deliberato l’intero pianeta, demolisce gli ultimi baluardi di civiltà, sbrana l’identità. Anche in quei rari casi in cui l’uomo della strada si accorge delle innumeri storture, accetta ogni feroce spoliazione, come fosse la cosa più normale.
In alcuni lustri abbiamo visto il cielo subire un’oscena metamorfosi: da magnifico scenario di fenomeni naturali, da suggestiva cornice di paesaggi, emozioni, significati, a teatro di devastanti attività militari. Lo splendore della luce solare si è offuscato: la nostra stella è stata soffocata da una plumbea coltre che lascia appena trasparire un barlume spettrale. Tutto, però, è accolto con noncuranza, con cieca consapevolezza che nulla è cambiato, anzi con il convincimento che il progresso avanza glorioso e fulgido.
Come si può continuare a vivere normalmente, quando si è gettata un’occhiata nell’abisso? Ormai si è sicuri non che il sistema è corrotto, ma che la corruzione più immedicabile è eretta a sistema. Non paiono aprirsi vie d’uscita nell’intricato dedalo, brecce nella poderosa muraglia. Della tanto sospirata crescita di coscienza non pare intravedersi neppure una labile ombra.
Fino a quando, però, resterà anche una sola testimonianza di verità, si saranno perse molte battaglie, ma non l’ultima, quella decisiva.
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